Giovanni Spadolini, "Gobetti", "Il Messaggero", 4 gennaio 1948 La rivoluzione liberale? L’Italia non ha mai avuto una rivoluzione liberale. Gobetti lo sapeva e lo capiva appunto perché era liberale più che nella misura esterna della sua posizione politica nel profondo del suo atteggiamento spirituale. Il liberalismo era coscienza dei problemi e volontà di risolverli e il Risorgimento aveva sentito e risolto così pochi problemi che non fossero puramente giuridici materiali e formali. Il liberalismo era senso della crisi e tensione alla novità e il Risorgimento era stato più un compromesso con la tradizione, che non una crisi rivoluzionaria, più un ritorno al passato, all’Italia cattolica e romana, che non uno slancio verso il nuovo, verso l’Italia liberale e moderna. Piuttosto rivoluzione conservatrice, che non rivoluzione liberale il Risorgimento era stato. L’unico liberalismo, ch’era allignato in Italia nell’Ottocento, l’unico liberalismo, che poteva allignare in un paese come il nostro, conformista e tradizionalista per definizione, era una specie o una sottospecie del conservatorismo. Era quel liberalismo, come capiva Gobetti, che rappresentava un termine inseparabile dal cattolicesimo in religione, dallo spiritualismo in filosofia, dalla monarchia in politica. Il liberalismo era per lui un impegno di vita, una forma della morale e della coscienza. Esso implicava una nuova iniziativa spirituale, una diversa dialettica politica, una migliore liberazione economica, ma per affermare un liberalismo siffatto, eran necessarie una riforma religiosa, un rinnovamento morale e una revisione istituzionale. Ebbene Gobetti – e ce lo confermano queste pagine oggi ristampate della Rivoluzione liberale (Einaudi ed.) - affermava e negava allo stesso tempo le esigenze da cui era mosso. Era un uomo d’infinite curiosità, di singolari ansie, di strani disincanti. E infine un po’ disorientato e disperso da quelle sue molte letture, da quelle sue molteplici esperienze, da quelle sue multilaterali attitudini. Si ritrovavano in lui, rifusi e risolti in una personalità individuatissima, l’arido e austero "problemismo" di Salvemini, l’aperto "eclettismo" sperimentale di Prezzolini e il lucido e logico "empirismo" di Einaudi. S’incontravano e si scontravano nel suo pensiero le posizioni dello storicismo crociano e le inquietudini dell’idealismo attuale, le prospettive orianesche sull’antica e nuova storia d’Italia e le aperture missiroliane al rinnovamento liberale. Per quanto derivasse da Oriani la convinzione che alla mancata rivoluzione religiosa si riallacciava la nostra costituzionale incapacità alla libertà, per quanto fosse imbevuto di mentalità protestantica e parlasse talvolta di un "nostro protestantesimo", egli sapeva quanto fosse impossibile in Italia una riforma religiosa, e quanto fosse difforme dagli istinti di un popolo come il nostro, che aveva nel sangue la disciplina cattolica. Per quanto consapevole, da buon lettore e continuatore di Cattaneo, delle insufficienze morali della nostra composizione unitaria, egli non riusciva a sperare in una trasformazione morale degli italiani. Antifascista d’istinto, vedeva nel fascismo "l’autobiografia della nazione". E per quanto intimamente avverso alla monarchia, capiva quanto fosse scarsa in Italia una coscienza repubblicana. Gobetti era uno degli esponenti più rappresentativi delle generazione uscita dalla guerra, senza averla combattuta, e entrata nel fascismo, senza averlo voluto. Si trovava, quindi, nelle migliori condizioni spirituali per condannare le vecchie classi dirigenti, che nella guerra si erano esaurite e rifiutare le nuove, che dalla guerra eran nate. Egli riassumeva in sé le antinomie della sua generazione, che aveva da venti a trent’anni dopo la prima grande guerra e anticipava le antinomie della nostra, che ha da venti a trent’anni dopo la seconda e più grande guerra mondiale. Era un liberale, cui sembrava di veder le future classi dirigenti nelle aristocrazie operaie elaborate dal sindacalismo e dal comunismo. Era un conservatore di nascita, di educazione, di gusto, che aspirava alla rivoluzione, prima di tutto morale. Era un intellettuale, che desiderava di liberarsi dall’intellettualismo. Borghese, provava una strana insoddisfazione e talvolta un aspro disgusto verso la sua classe, quando non desiderava addirittura mescolarsi nel proletariato. Crociano, avvertiva i limiti del crocianesimo. Vociano, voleva andare oltre l’esperienza della "Voce". Vissuto nel clima spirituale dell’orianesimo, non sempre s’appagava negli schemi della "Lotta politica" o della "Rivolta ideale". Ribelle alla tradizione del Risorgimento, restava fedele alle correnti eterodosse del processo unitario. Antiautoritario e anzi libertario, esaltava la teoria della "classe politica" di Mosca e di Pareto come il più alto risultato del pensiero sociologico moderno. Antisocialista, giudicava la lotta di classe come "lo strumento di formazione di nuove élites".Antifascista per definizione, dava la più puntale valutazione del fenomeno fascista. Nella critica psicologica di Mussolini, superava tutti gli uomini del suo tempo. Il problema massimo che si poneva Gobetti nella "Rivoluzione liberale" era un problema d’iniziativa. All’Italia era mancata, infatti, un’autentica iniziativa spirituale e politica in quel "Risorgimento senza eroi", di cui era critico così impietoso. Non ebbe tempo né voglia di scrivere una "Lotta politica in Italia" di valore, d’impegno, di potenza pari a quella del suo maestro, Oriani. Si può però dire, senza timore d’esser contraddetti, che l’unico libro che abbia in qualche misura integrato fino al Novecento il grande panorama della "Lotta politica in Italia" sia stato proprio questo "saggio sulla politica in Italia", come Gobetti definiva la "Rivoluzione liberale". E quanto non sarebbe opportuno che qualcuno di noi oggi completasse il pur incompiuto saggio di Gobetti? Giovanni Spadolini |